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La pittura come sollecitazione/La pittura come vibrazione – Francesco Moschini

Abituati come eravamo alla puntigliosa meticolosità del “tutto pieno” dell’intero itinerario artistico di Bruno Lisi, è oggi davvero sorprendente vederlo impegnato in un nuovo ciclo che sembra avere come proprio fondamento l’abbacinante rarefazione del vuoto. A sottolineare poi questo apparente mutamento di indirizzo della propria ricerca egli ha fatto ricorso ad una tecnica e ad uno strumento come la penna a sfera, certo molto distanti dalla sua abituale predilezione per una pittura intrisa di vibranti pulsioni, proprio per la loro asetticità e per il loro alludere ad un universo indistinto ed indifferenziato. Ma si tratta, ancora una volta, per B.Lisi, di dar corpo a profondità inesplorate, di far uscire dalla superficie delle figure poste in tensione, come se l’intera opera fosse trattata “pittoricamente” e non solo quindi la parte dove il segno si ispessisce sino a farsi fasciante ed a trattenere l’urgenza di sotterranee vibrazioni. Ecco perché togliendo ogni parvenza di automatismo al segno tracciato, B.Lisi impone allo stesso una sorta di chiaro-scurale sfumato che conferisce all’immagine fatta affiorare un vitalismo, un animismo ed una sorta di pampsichismo che sembra spingere la sua ricerca ad apparentarsi più con quelle teorie sull’universo come “brullichio” che non come pura aspirazione alla forma. E’ quanto almeno sembrerebbe indicare certa sontuosità barocca lasciata intravedere dietro quei “sipari” annodati e alzati, quel cangiantismo materico alla “Ludovica Albertoni”, mosso dal vento, ma raggelato dal suo essere costretto ad affiorare appena, quasi scheletrica presenza sopravvissuta all’erosione del troppo vuoto che la circonda. Non è un caso poi che appena evocate queste presenze, B. Lisi le abbia ritagliate e ricondotte in una sequenza verticale da vera e propria stele imprimendo all’intero montaggio, attraverso il nitore dei due fogli bianchi posti in successione, una voluta arcaicità che dichiarasse subito la propria distanza da possibili memorie di pittura-pittura. Tutto ciò per farsi più sofferta interrogazione sulla costruzione del vuoto, sulla struttura della figura che si rivela nel proprio negarsi, nell’abbandonico lasciarsi andare della mano che dà corpo e struttura senza un disegno a priori. La stessa esasperazione dimensionale impressa dalla verticalità assunta dall’opera, quella costrizione a farsi puro cantuccio poetico nell’anomala collocazione in alto delle varie figurazioni, spiazzate nelle loro più diverse giaciture, sembrano misurare il vuoto abissale che le costringe a rapprendersi ed a rinchiudersi sempre più a bozzolo. Più che un veloce passaggio di nuvole allora, quelle apparizioni sembrano indicare un timore e nello stesso tempo un bisogno di prendere le distanze da quel vuoto che pure le ha fatte riaffiorare in una oscillazione continua tra voglia di immergervisi e timore di sprofondarvi. Il tutto, nella certezza però che il loro prorompere è garantito proprio dal ritrarsi di quel vuoto, dal suo aprirsi quasi a lasciare forre di accumulo d’ombra se non di mistero. Ma, a sottolineare la sostanziale identità tra le figure affioranti, ridotte a simulacri se non a veri e propri reperti di uno scavo stratigrafico, quel vuoto incontaminato eppure sollecitato dalle leggere scosse telluriche che mettevano in vibrazione quegli stessi brandelli d’immagine, B.Lisi affianca alla rarefazione di questo ciclo una serrata sequenza di più labirintici segni. Una serie cioè di lavori in cui, più liberamente, il segno tracciato si sovrappone, si insegue, s’intreccia sino ad occupare ogni interstizio. Il tutto in una costrizione a rimanere nei limiti fisici del foglio, a non lasciare vuoti inesplorati, quasi a sottolineare la lontananza di questo modo di procedere dal fiducioso andare oltre, da quella voglia di trasbordare che era tipica invece, ad esempio, di J.Pollock. E questo chiudersi all’interno di una superficie misurata e controllabile, sforzandosi di farne affiorare impreviste profondità solo attraverso il cangiantismo del segno che si sovrappone, o il trascolorare dei diversi segni che si intrecciano, non può che ricondurci a quell’idea che, come ossessione continua, permea il lavoro di B.Lisi dagli anni sessanta ad oggi, quella cioè di una pittura intesa come sollecitazione continua se non come messa in vibrazione della superficie pittorica. Ed è proprio questo lavoro in superficie, paradossalmente, a registrare quella ricerca di interiorità e di grande spiritualità che dalle avanguardie storiche in poi ha sempre caratterizzato il percorso verso l’astrazione. E sono proprio questi fogli, con la loro ossessione per un segno insistito e che torna sempre su se stesso con la propria circolarità, a richiamare quel naturalismo, da B.Lisi sempre invocato, come fondamento del proprio operare, alla ricerca di quel “continuum dove tutto è”. Non è caso allora che, sottolineata la propria distanza di procedimento dall’espressionismo astratto americano, quello più fiducioso nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, il lavoro di B.Lisi tenda invece a costruire una sorta di continuità con quei percorsi fatti di fittissime trame di microsegni vibranti attraverso cui M.Tobey esprimeva l’incessante pulsare della vita. Che altro è quell’eccesso di pieno, contrapposto a quella vertigine del vuoto, se non un rammemorare a distanza quella “white writing”, quella scrittura bianca che, a parte l’ascendenza orientale di fondo, non può che presentarsi come momento conoscitivo se non di pura riflessione sul reale? Allo stesso modo, lo scrivere attraverso superfici ampie e luminose, come già è accaduto in altri suoi cicli pittorici, per B.Lisi, è come portare alla coscienza frammenti da lontano che l’artista si sforza di captare e di tradurre in un nuovo ordine che non sia quello intellettualistico e concettuale ma quello più vissuto del quotidiano che si fa proiezione continua del presente. In una sorta di teatro delle ombre il prorompente apparire, per poi farsi evanescente, di un universo portato alla ribalta visiva, non fa che mantenerci nell’instabile equilibrio di precari spettatori di una scena che vorremmo oltrepassare e che siamo costretti invece a continuare a traguardare nella sua spiazzante e levigata profondità da stiacciato donatelliano. Ed è questa stessa riduzione ad una spazialità concentratissima a scandire il lavoro di B.Lisi fin dai suoi esordi nei primi anni sessanta. Fin da allora, il suo muoversi tra astrazione e figurazione, alla ricerca di un esito che lo collocasse al di fuori della ormai logora polemica tra astrattismo e realismo, vi aveva fatto individuare in alcuni artisti come ad esempio A.Magnelli un mondo espressivo di intense sollecitazioni proprio per il suo scommettere sull’astrazione di elementi ben definiti e di solida connotazione costruttiva. Ma anziché rileggere la portata teorica di quel maestro italiano dell’astrattismo in una declinazione esasperata di strutturalità geometrica, come già avevano fatto, sul finire degli anni quaranta, gli artisti di Forma 1, B.Lisi ne coglie più che la decontaminazione della pittura da qualsiasi ridondanza narrativa, le qualità della vibrazione pittorica. B.Lisi privilegia cioè ciò che in Afro si preciserà come pura struttura luminosa, sino a risolvere lui, artista pur così giovane in quegli anni, la dialettica tra materia e luce in un precario equilibrio tra i due termini. E’ proprio a ridosso delle sue prime esperienze astratte l’incalzare dell’urgenza informale che lo porta ad esasperare colori di brume e di terra sino ad arrivare a fondi bituminosi che negano ogni affondo visivo. E’ in quegli stessi anni allora, che B.Lisi recupera attraverso il monumentalismo di alcune figure una spazialità di grande respiro in cui il giustapporsi di ampie stesure cromatiche si fa già allusione naturalistica, premonitrice di quegli sfondamenti spaziali che, sul finire degli anni sessanta, egli porterà a magistrale compimento evidenziandoli nella loro esasperata dilatazione e nella pur forzata costrizione del piccolo formato. In una sorta di esercizio di autocensura B.Lisi tende allora a raffreddare quanto di distruttivo potesse portare in sé la gestualità dell’operazione pittorica. Il gesto, a stento frenato, costringe allora le figure colte a distanza ravvicinata, una parte del corpo soltanto, due mani, con una aspirazione all’indistinto, al non precisato, al non finito, ad esibire la propria condizione di frammenti, come se dipingere per B.Lisi significasse esaurire o meglio ancora bruciare in uno spazio ridottissimo ed in un tempo che non ammetteva mutamenti, né tantomeno delle riprese, la memorizzazione di un’impressione. L’artista sembrava allora teso a formare la velocità del passaggio dell’immagine in quel vuoto inteso come reale protagonista dell’opera più che a fissare l’immagine stessa. Giungeva così ad una fisicità di quel passaggio d’immagine in modo che il discorso scivolava dai dati oggettivi alle loro possibili deformazioni, dal dato reale alla sua manipolazione sulla via di una perseguita emblematicità che si fondava sulla ricerca di una stringente immediatezza, sulla folgorazione cromatica data per urlata contrapposizione di accesi colori. E che il lavoro di B.Lisi tendesse sempre più alla riduzione di qualsiasi presenza all’interno dell’opera, scarnificando il colore ed eliminando ogni struttura che potesse far pensare ad una ricercata complessità d’impostazione, sembrano ben dichiararlo i lavori successivi che tendono a fare del vuoto, del bianco della tela appena fatto vibrare, il luogo del minimo intervento, da muovere appena, da far increspare come una tavola di cera appena solcata o meglio appena attraversata da impronte-meteore di cui non si può che osservare la sola traccia. Alla fine non resta allora che la malinconia per una vagheggiata perdita della cui mancanza non potranno che essere evocate tracce mute e silenziose che nel loro farsi uniformi e intoccabili, sottolineano il valore di pure comparse che la memoria sotterra e dissotterra con ossessiva insistenza. E’ così per le immagini-meteore di enfatizzate parti anatomiche, ma è così pure per le serrate “tensioni” elaborate da B.Lisi nella prima metà degli anni settanta. E comincia proprio in questi anni una critica serrata da parte di un artista ai fondamenti stessi dell’opera per concentrarsi più sulla struttura della stessa che non sui dati che essa sembra voler comunicare all’esterno. Ma, si badi bene, non in termini tautologici come sembrava fare parallelamente la pittura aniconica, non cioè sugli stessi strumenti disciplinari, ma piuttosto sui fondamenti della visione, su quelle “strutture assenti” capaci però di determinare e legittimare storicamente l’opera d’arte. Per questo era necessaria una riduzione al grado zero della pittura, una riscoperta dei suoi valori primari, sino ad abbandonare il piacere stesso della pittura per pure stesure asettiche e rinunciatarie. Non è un caso allora che B.Lisi riscopra nell’azzeramento totale delle avanguardie sovietiche e di quelle formaliste in particolare, il fondamento delle sue nuove ricerche. Non solo il Quadrato nero su bianco di K.S.Malevic ma anche le stratificate sovrapposizioni monocrome di A.M. Rodcenko costituiranno certo il punto di riferimento per un nuovo modo di fare pittura che individua nella pura spazialità della superficie pittorica, non una sorta di tabula rasa su cui incidere e raccontare la propria visione del mondo, ma semmai e soltanto la non oggettività del mondo come sola finalità dell’opera, sino a dimostrare come non sia poi così reale la realtà “pratica” delle cose. Tutto ciò in nome di una conoscenza pura e assoluta di ogni forma di oggettività, subordinando il colore e la struttura dell’opera ad una comunicazione spirituale e di pura idealizzazione. Val la pena allora rileggere quelle Tensioni più che nei loro dati di ambiguità, come già a suo tempo aveva evidenziato C.Vivaldi, nel loro aspetto costruttivo e ludico ad un tempo, quasi di geometrie della mente memori di quella primordialità costruttiva che da ragazzi ci faceva giocare con gli elastici tra le mani sino a farci scoprire complesse geometrie intercambiabili con una semplice operazione di ars combinatoria. Così quelle impronte quasi monocrome che solcavano appena la superficie pittorica, sino a farla vibrare per l’effetto di una brezza radente, alludevano ad una cosmologia del quotidiano di tenerissimo effetto pur nel loro eccesso di concentrazione se paragonate al “far grande” che si celava dietro il mito della nuova frontiera dei coevi grandi Cellotex di A.Burri. Ma quanto in A.Burri era decantazione solare della materia portata a nuova bellezza, in B.Lisi si evidenziava come ritagliata porzione di una spazialità volutamente limitata, ricondotta alla propria controllabilità e misurabilità quasi a non far vedere, oltre le possibili siepi, altri spazi ed altri silenzi. Ed è proprio questo l’aspetto che, a metà degli anni ottanta, verrà accentuato da B.Lisi in un acceso spiritualismo che, enfatizzando la centralità dell’opera in una sorta di propagazione cosmica della materia, costringe la stessa a disporsi secondo un respiro davvero cosmico. La stessa fioritura che accompagna il dispiegarsi sinuoso di quelle onde di propagazione, sembra evidenziare lo stesso atto magico del creare. Nulla di più distante in questa messa a fuoco quasi al microscopio delle riprese “ravvicinate” di D.Gnoli nel loro enfatizzare la realtà per esorcizzarla, di queste calibrate lievitazioni, quasi la materia fermentasse tracciando scie luminose e facendo precipitare pulviscolo. Ma quel precipitare ha il sapore alchemico della trasmutazione della materia e certo è il segno dell’amorevole assecondamento che B.Lisi sembra operare con la propria azione maieutica nei confronti della materia stessa, sin quasi a costringerla ad esibire la propria bellezza folgorante con il suo smalto e la sua incisività, pur nella coscienza del suo inevitabile portare con sé i segni della propria distruzione. La stessa patinata bellezza sembra così uniformare le opere più recenti, che a partire dall’ ’86 B.Lisi ha impostato con un ciclo di quadri blu di straordinaria concatenazione ed emozionante respiro. Nella prima serie, una sorta di inquadramento se non un vero e proprio boccascena ottenuto con una bordatura unitaria della tela, faceva irrompere in una sorta di ribalta ideale la magmatica esplosione di grumi di materia di viaria grandezza. Ma, nel contempo, l’esasperata frontalità del tutto alludeva ad una raggelata Isola dei morti di böckliniana memoria intaccata appena dalla corrosività e dall’irruenza di quei flutti o, che è lo stesso, dall’infittirsi incontrollato di un’aggressiva vegetazione. Eppure l’effetto finale restituiva la stessa impietosa durezza di un desertico paesaggio di C.D. Friedrich che, solo più recentemente, proprio negli ultimi lavori di B.Lisi, ha iniziato ad ammorbidirsi, nella serie “millimitrata” di paesaggi scanditi dal giustapporsi come tessere in un ideale mosaico. E’ qui che si dispiega in tutta la sua vitalità la passione dell’artista per l’affresco che per un po’ di anni egli ha avuto modo di conoscere come restauratore, e come successione di giornate possono intendersi allora i montaggi di quelle maglie in cui la materia si espande, si estende e si enfatizza quasi a denunciare che la sua bellezza può essere per lo meno fissata dall’amore stesso per le cose pur scoprendo in esse e svelando simultaneamente e perfidamente il vuoto abissale in cui potremmo essere precipitati se ci bastasse quell’estenuante bellezza da “sepolcro imbiancato” e non ci sorreggesse invece quell’eterna tensione verso l’altrove.

(dal catalogo della mostra “La vertigine del vuoto”, Galleria A.A.M., Roma, settembre 1989; ristampato nel catalogo della mostra “Opere dal 1989 al 2001”, Galleria A.A.A. Palazzo Brancaccio, 26 novembre 2001-26 febbraio 2002).